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L'archeologia della Grande Guerra può raccontare storie segrete grandi e piccole di soldati. Dare una storia ai caduti e agli oggetti che a loro appartenevano. E a volte integrare o mettere in discussione la verità "scritta" delle fonti ufficiali o della memorialistica, raccontando fatti accaduti in modo molto diverso da come erano stati descritti o ricordati in lettere o diari. A volte confermando invece le relazioni ufficiali. Un esempio importante in Italia è la storia dei tre soldati italiani del Valico del Menderle, scavato in Trentino, nei pressi del Corno Battisti, un'azione avvenuta nel 1916, e che grazie allo scavo si rivelò molto diversa da quanto consegnato agli archivi. Riportando anche, se vogliamo, onore e dignità allo sforzo di quei caduti. Nel video il racconto di Franco Nicolis, direttore dei beni archeologici della provincia autonoma di Trento, che con Nicola Cappellozza ha scavato archeologicamente l'area dello scontro. Due le grandi questioni aperte nell'archeologia della Prima Guerra Mondiale: la prima è che, come tutta l'archeologia della contemporaneità, deve lottare per farsi riconoscere con la dignità di archeologia dal mondo accademico e dalle istituzioni, cosa che sta lentamente avvenendo. Il secopndo "fronte" è invece, importantissimo, il dialogo con i cittadini e le comunità locali, teso a superare la logica della "caccia ai cimeli", l'uso indiscriminato del metal detector (con o senza "patentino") e il disinteresse. Un elmetto Adrian può finire su uno scaffale di un collezionista o di un venditore di cimeli, oppure può raccontare una storia nel contesto di altre storie: restituire brani di vita di esseri umani. e questo può essere fatto solo con un'alleanza tra ricercatori e chiunque sia interessato alla propria storia. In quella che venne giustamente definita come "l'archeologia del nonno".